PROCESSO AEMILIA

COSÌ I CLAN SI SONO SPARTITI LE SPONDE DEL PO

La testimonianza chiave: il pentito di mafia Giuseppe Giglio svela il business criminale di sabbia e ghiaia, in mano agli uomini dei clan. Le rivelazioni emergono dall’inchiesta Aemilia

QUI UNA RICOSTRUZIONE ESCLUSIVA DALLE CARTE DEL SUO INTERROGATORIO

Le aziende citate in interrogatorio acquistavano solo materiale da Giglio e non erano parte attiva del business fraudolento. Non sono dunque coinvolte in alcun modo nell’inchiesta Aemilia
28 GENNAIO 2015
Sono le 3.30 del mattino quando a Reggio Emilia scatta l’ora x. I campanili dei comuni della provincia emiliana sono ancora “addormentati” quando scendono nelle strade centinaia di agenti della Direzione distrettuale antimafia di Bologna, per bussare alle porte degli uomini della cosca che ha unito in un sodalizio criminale Calabria ed Emilia. Centodiciassette gli arresti disposti dalla magistratura di Bologna. Altri 46 provvedimenti emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia, per un totale di oltre 160 arresti. Siamo davanti alla prima maxi operazione contro la criminalità organizzata nella regione del nord: Aemilia. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti parla di “un’iniziativa storica, senza precedenti”. Il blitz ha il suo epicentro in Emilia ma le indagini toccano anche la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Calabria e la Sicilia. L’inchiesta, coordinata dal procuratore capo della Dda Roberto Alfonso, colpisce al cuore la cupola della cosca cutrese di Nicolino Grande Aracri, con i suoi tentacoli nella politica e nell’imprenditoria.
le mani sul fiume cave
È un terremoto quello che scoppia in Emilia, in una terra che credeva di avere gli anticorpi per resistere alle infiltrazioni mafiose o che aveva troppo a lungo fatto finta di non vedere. Nel vortice di Aemilia ci finiscono tutti: imprenditori, commercialisti, calciatori e politici. Le indagini fanno emergere un sistema criminale capace di insinuarsi in maniera pervasiva nel tessuto economico e imprenditoriale: nei settori dell’edilizia, dei trasporti, del movimento terra e dello smaltimento dei rifiuti. Gli interessi in ballo sono grossi: le macerie del sisma del 2012 sono ancora lì e le ditte delle cosche hanno fretta di “ricostruire”. L’estensione tentacolare della ‘ndrangheta in Emilia tocca numeri senza precedenti nel nord Italia. Per l’udienza preliminare il padiglione 19 della Fiera di Bologna si trasforma in aula di Tribunale, mentre a Reggio Emilia si costruisce in tempi record un’aula bunker nel cortile del palazzo di giustizia, che possa raccogliere i 147 imputati del maxiprocesso.
le mani sul fiume cave
Delle mani (dei clan) sul Grande Fiume inizia a parlare Giuseppe Giglio. Primo pentito di Aemilia, “Pino” Giglio era considerato il “commercialista” dei Grandi Aracri: quello che usava società per comprare sabbia e ghiaia in nero, quello che ripuliva il contante delle ‘ndrine emettendo fatture per operazioni inesistenti. Durante il suo interrogatorio racconta di come si fosse riuscito a mettere in piedi nel mondo delle escavazioni un sistema criminale tra Reggio, Mantova e Modena. Giglio si era appena trasferito dalla Calabria a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, e aveva comprato un camion. La ‘ndrangheta intanto si era spartita le sponde del Po. Non a caso, sulla riva lombarda del Fiume, qualche tempo dopo il terremoto Aemilia, prende il via il processo Pesci: gli imputati al banco, il più delle volte, sono gli stessi.

Giglio traccia la geografia criminale del mercato di sabbia e ghiaia da una parte all’altra del Fiume: migliaia di camion che hanno attraversato Emilia e Lombardia con carichi non a norma, facendo sprofondare l’asfalto e frodando il fisco, milioni di metri cubi di inerti estratti senza autorizzazioni e svenduti sotto costo, alterando l’equilibrio delle acque e del mercato; quintali di rifiuti di ogni sorta, “tombati” nelle cave esaurite; la scarsità plateale di controlli da parte di chi doveva vigilare e non lo ha fatto.
le mani sul fiume
Gli abbiamo svuotato la cava sotto gli occhi e manco se n’è reso conto. Si arrivava al limite massimo dello scavo, si andava giù a prendere sempre qualche metro in più, giù fino a dove poteva arrivare il braccio escavatore e poi si “tappava” il buco con terreno da riporto. Tanto poi chi veniva a controllare?
le mani sul fiume